Dune di David Lynch è, a suo modo, una grande lezione sul cinema: cosa accade quando a un artista non viene lasciata completa libertà?

David Lynch è il Maestro. Regista non eccessivamente prolifico (un po’ come il suo mito, Stanley Kubrick, per il quale uno dei film preferiti era proprio l’opera prima di Lynch), ci ha deliziati nel tempo con pellicole che non lasciano certo indifferenti. Dal biopic The Elephant Man al thriller Velluto blu, passando per il surreale Eraserhead e l’introspettivo Mulholland Drive: perdersi il cinema di Lynch significa perdersi qualcosa di molto importante, di fondamentale per la propria anima.

Nella cinematografia di Lynch c’è però un film per così dire “minore” – un conoscente molto esperto dell’argomento mi perdonerà se prendo in prestito il suo modo di definirlo. Ovviamente mi riferisco a Dune, tratto dal romanzo di Frank Herbert, per il quale avrebbe dovuto realizzare una pellicola Alejandro Jodorowsky e che vedrà forse quest’anno l’adattamento di Denis Villeneuve. Il Dune di Lynch è qualcosa che da sempre fa sollevare più di un sopracciglio. Come mai un genio come Lynch abbia girato qualcosa che molti cinefili ritengono una copia mediocre del romanzo?

Iniziamo col dire che le cose non stanno proprio così. Se alcuni puristi ritengono che Jodorowsky avrebbe realizzato un capolavoro, c’è da dire che alcuni particolari del suo film sono rimasti nel Dune di Lynch, come per esempio le scenografie progettate da H.R. Giger. Naturalmente un buon film non si giudica solo dalle scenografie, però uno dei punti di forza del Dune di Lynch è anche il cast: Kyle MacLachlan che sarebbe diventato il suo attore feticcio, Jurgen Prochnow (ossia il woodsman originale), Max von Sydow, Brad Dourif, Freddie Jones, Linda Hunt, Sting, Everett McGill (il suo incontro sul set con Lynch segnò la nascita del personaggio di Big Ed in Twin Peaks), l’immancabile e adorabile, anche quando veste i panni del villain, Jack Nance, e Alicia Witt bambina, che in Twin Peaks sarebbe diventata in qualche modo cruciale in quanto a simbolismo.

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La vulgata sulla produzione racconta che a Lynch furono imposti dei tagli creativi, soprattutto in sede di montaggio. Eppure non mancano in Lynch delle scene iconiche. Come insegna Ted Mosby, il risveglio del «dormiente», il Kwisatz Haderach, è qualcosa di indimenticabile per la mia generazione. Il film è del 1984 e nonostante i suoi limiti è stato quasi un manifesto per la Generazione X, che era alla ricerca di una coscienza sociale internazionale, alla vigilia di un mondo globalizzato che avrebbe cambiato tutto, per sempre.

La storia di Dune è la più antica del mondo. C’è il bene e c’è il male. Nel mezzo c’è chi si schiera e il male è più affascinante del bene, ha di meglio da offrire. Così Dune racconta una storia di fantascienza che in realtà è Storia, anche se il lieto fine nella Storia non c’è. Tutte le vicende del periodo coloniale in Africa, la cacciata dei nativi americani per mano degli europei, il genocidio delle civiltà precolombiane costituiscono il corrispettivo reale di Dune. Dune è ancora oggi nelle guerre del petrolio e per i diamanti, nell’apartheid, nelle forme di genocidio più sottili, come quella degli uiguri che sono soggetti a sterilizzazioni forzate in Cina. E il merito di Lynch è comunque quella di un grande Maestro non solo del cinema, ma di virtù umane.

Non avete mai visto Dune? Non aspettatevi né Velluto bluMulholland Drive, ma se guardate bene troverete quella luce che è in tutto il Lynch venuto successivamente.

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