Un anno fa, come in questi giorni, terminava quello che è stato il primo telefilm più longevo di Netflix. E, per quello che mi riguarda, anche il più appassionante: Orange Is the New Black. (L’articolo contiene spoiler, non leggete se non avete visto interamente la serie).

Non so dire con esattezza quando e come io mi sia appassionata alle serie tv in streaming. Perché in realtà, ad appassionarmi, è stato in primis il nuovo corso delle serie tv come prodotti di qualità, colti e dalla “discendenza” cinematografica. Perché, prima che esistesse lo streaming, io avevo visto solo una serie completamente per intero. Anche di quelle che mi avevano appassionata di più (Friends, Buffy l’Ammazzavampiri, Dawson’s Creek) mi ero persa qualche puntata o intere stagioni. L’unico telefilm che avevo mai visto per intero era Twin Peaks, che è stato il precorritore dell’aspirazione alla qualità cinematografica odierna delle serie. Come sappiamo, l’esperienza di Twin Peaks, per quanto riguarda le prime due stagioni, non fu completamente felice: David Lynch non ebbe tutto lo spazio che avrebbe meritato e che i suoi fan avrebbero voluto, vennero aggiunte delle storyline un po’ troppo soap opera e andò smarrito il senso di quell’idea originale, almeno finché Lynch non riprese le redini della sua opera in una incredibile ultima puntata (e poi in un film e una terza stagione che è un film di 18 ore).

Quello che mi ricordo è il modo in cui mi sono appassionata a Orange Is the New Black, che ho iniziato a guardare quando era già uscita la seconda stagione. In pochissimo tempo, ho recuperato tutte le puntate in lingua originale e le ho viste. Ho proseguito così di anno in anno, ho anche letto il memoir di Piper Kerman che costituisce la base del telefilm (che però poi ha preso una sua propria strada).

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Quello che ti appassiona da subito di Oitnb è la storyline principale, ovvero quella di Piper Chapman, borghese e wasp, che negli anni postuniversitari si è innamorata di un’affascinante corriere della droga, Alex Vause, e che ha ricevuto una pena di 14 mesi di detenzione per aver trasportato del denaro in Europa una sola volta. Tutte noi possiamo identificarci in Piper, non per il reato commesso, ma per quanto il mondo della prigione può essere scioccante per chi non lo conosce affatto. Fin dal primo momento, Piper resta invischiata nella burocrazia della prigione: non può comprare gli infradito allo spaccio e con essi fare la doccia perché non conosce i tempi tecnici per gli accrediti. E resta invischiata nei meccanismi sociali: dallo stupore per la separazione razziale fino a qualche parola di troppo detta alla potente e temuta Red, anziana russa a capo delle cucine, arrestata per racket, nel carcere di Litchfield ormai da molti anni.

Mano a mano, emergono le storie delle singole compagne di detenzione di Piper, con cui la protagonista innesca rapporti di amore-odio in base alla situazione: dalla sua ex Alex alla stessa Red, da Yoga Jones (un’anziana hippie che ha ucciso per sbaglio un bambino mentre era ubriaca) a sorella Ingalls (una ex suora che si è incatenata a una centrale nucleare), passando per Sophia (donna transgender accusata di un crimine in realtà compiuto dal figlio per incastrarla), Taystee (afroamericana intelligentissima che non riesce a far fronte al fatto che la società rigetti chi, come lei, è senza famiglia), miss Claudette (che ha ucciso un uomo per aver stuprato delle giovani colf creole che lei supervisionava nel suo lavoro), Suzanne “Occhi Pazzi” (una giovane afroamericana con problemi psichiatrici, dentro per omicidio colposo di un bambino), Nicky (tossicodipendente per non essere mai stata amata e apprezzata in famiglia), Tiffany “Pennsatucky” (tossidipendente dislessica del Midwest, arrestata per aver ucciso l’infermiera di un centro aborti, e per questa diventata la paladina degli antiabortisti), Poussey (un’altra afroamericana vittima del sistema giudiziario razziale, dentro per essere trovata in possesso di 12 grammi di marijuana in una proprietà privata), Lorna (una stalker italoamericana che in realtà si scopre essere una malata psichiatrica, a causa di un omicidio colposo da lei commesso e la conseguente negazione), Blanca (ispanica che non ha commesso nessun reato, ma ha coperto la vecchia per cui faceva la badante, che aveva commesso un omicidio colposo) e così via.

Ci vorrebbe una vita per condensare in un articolo tutte le trame e le sottotrame di Orange Is the New Black. Vi basti sapere che ogni episodio è composto da una parte che racconta quello che accade in carcere, alle detenute e al personale della prigione, mentre ci sono delle parti di backstory, che immergono lo spettatore nelle vite precedenti dei diversi personaggi. È così che lo spettatore comprende perché queste donne siano finite in carcere e come, forse, non solo non siano tanto colpevoli e siano state fagocitate dal sistema malato del melting pot, ma soprattutto ci sono uomini e guardie che delinquono protetti dallo stesso sistema, sfruttando la miseria vissuta quotidianamente da queste donne in carcere.

E qui la faccenda si fa politica. Perché Oitnb mette in risalto non solo le specificità femminili ignorate dal sistema carcerario, ma spiega esattamente in cosa consista il sistema di criminalizzazione. E di come la vita di alcuni conti meno della vita di altri in un sistema che è profondamente razzista. L’omicidio in mensa di Poussey Washington probabilmente passerà alla storia della televisione, per aver portato sullo schermo, pedissequamente, qualcosa che accade quotidianamente nella vita reale degli afroamericani.

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Le sfumature politiche della serie sono evidenti e toccano diversi temi, come la discriminazione delle persone transgender e la negazione dei diritti per i migranti. L’ultima stagione, in particolare, si focalizza sui centri di detenzione dell’Ice, in cui le migranti non riescono a trovare un avvocato difensore, mettersi in contatto con i propri cari, ottenere un aborto neppure nel caso siano state stuprate al confine da qualche americano.

C’è poi il modo in cui la prigione ti schiaccia e ti rovina la vita. Ci sono due storie in particolare lungo lo spettro di queste possibilità: la storia di Dayanara e quella di Tiffany. Dayanara, di origine latina (tutto lascia intuire che sia portoricana), è stata arrestata per spaccio e tradotta nel carcere in cui c’era già la madre. È ingenua, avrebbe voluto diventare un’artista. E nel carcere si innamora della guardia John Bennet e rimane incinta. A causa di una faida tra un’altra guardia, Pornobaffo, e Red, viene messo in atto un complesso piano per cui Pornobaffo viene accusato dello stupro di Dayanara, mentre Bennet la abbandona. Nel corso delle stagioni, Dayanara cade verso l’abisso: viene accusata di un omicidio che non ha commesso, patteggia e resta incastrata nella logica delle bande della prigione. Finché non uccide la sua compagna Daddy e ingaggia una faida con la madre per lo spaccio di droga all’interno del carcere. Tiffany, all’inizio sembra senza speranza: è una bifolca fervente religiosa, che cerca di uccidere Piper. Ma l’amicizia con Big Boo prima e la volontà di riuscire a redimersi fanno di lei una persona migliore. Ma è la stessa Dayanara e una guardia svogliata, Luscheck, che le impediscono di sostenere un buon esame per prendere il diploma. In realtà, lei non lo sa, ma l’esame è andato bene: Tiffany si suicida con un’overdose, credendo di non avere più speranze di redenzione. Viene portata via in un sacco, in una scena-citazione del ritrovamento di Laura Palmer in Twin Peaks. Una scena bellissima, intensa, in cui lo spettatore non può non commuoversi. Ma in tutto questo c’è anche una speranza: la spirale discendente di Taystee trova la sua parabola e risale. Il suicidio di Tiffany non è stato invano, e Taystee decide di migliorare il sistema carcerario e non solo: con l’aiuto di un’ex detenuta per reati finanziari, la celebrata chef Judy King, che era grande amica di Poussey, istituisce un fondo alla memoria dell’amica scomparsa, per aiutare le detenute a gestire il denaro una volta fuori di galera. (Nella realtà, esiste questo fondo, su iniziativa della produzione della stessa serie).

Oitnb è una di quelle serie che dovete guardare necessariamente in lingua originale, per carpire slang, modi di dire, ma soprattutto le sfumature nell’intonazione dei diversi personaggi in base alla loro etnia.

C’è poi dell’altro e non è certo un dettaglio trascurabile. Molti degli episodi di Orange Is the New Black sono diretti da attori. Che si sono prestati alla regia o come professionisti navigati o come esordienti. Tra essi Jodie Foster, Andrew McCarthy, Nick Sandow (che nella serie interpreta anche Joe Caputo), Laura Prepon (che interpreta la meravigliosa Alex), Clark Johnson e Natasha Lyonne (che nella serie è Nicky Nichols). Due episodi sono stati inoltre diretti da registi molto noti, come Allison Anders (è suo l’episodio L’ingrediente mancante nel miscellaneo Four Rooms) e Matthew Weiner, creatore di Mad Men.

Una curiosità interessante a proposito degli episodi diretti da McCarthy. In alcuni di essi potrete scorgere degli easter egg che hanno strettamente a che fare con il regista, come una sua sagoma pubblicitaria fuori dal negozio in cui il personaggio di Gloria lavora prima di essere arrestata (e durante l’arresto), e un libro tra le mani di Caputo, Just Fly Away.

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