Tre manifesti a Ebbing, Missouri ci mostra come una pellicola che racconta fatti verosimili possa diventare una vera opera d’arte.
Immaginate che una sera vostra figlia non torni a casa. Immaginate che sia stata stuprata e uccisa contemporaneamente mentre tornava a casa. Immaginate che ci sia un maniaco a piede libero. Immaginate che la polizia brancoli nel buio. Cosa fareste? Noi sappiamo cosa fa Frances McDormand in Tre manifesti a Ebbing, Missouri: affitta tre spazi 6×3 e manda un messaggio al comandante delle locali forze dell’ordine. La storia del film prende appunto le mosse da questa scelta e dalle sue ripercussioni.
Scritto e diretto da Martin McDonagh, interpretato, oltre che da McDormand anche da Woody Harrelson, Sam Rockwell, Peter Dinklage e il fantastico Caleb Landry Jones (che proprio nello stesso periodo prese parte anche alla terza stagione di Twin Peaks e all’horror atipico Get Out), Tre manifesti a Ebbing, Missouri si è aggiudicato due Oscar, per McDormand e Rockwell.
Ma, al di là dei premi, credo che il successo e il riscontro di critica di questa pellicola, che raccoglie il 90% di giudizi positivi su RottenTomatoes, sia dovuto al fatto che racconta in maniera originale una storia verosimile. Nel cinema, soprattutto oggi, abbiamo due tronconi principali di storie (anche altri, ma questi sono i principali, i più in evidenza): le sceneggiature tratte da reali vicende, come i biopic, e quelle totalmente inventate e con nessun nesso con la realtà, cosa che in passato era relegata quasi esclusivamente a interi generi come fantasy e horror. Tre manifesti a Ebbing, Missouri fa un’operazione di ritorno al classico del cinema: ci racconta una storia empatica, ricca di emozioni in cui lo spettatore può rispecchiarsi, ma al tempo stesso è totalmente inventata, creativa, per certi versi esagerata. Dalla corte che la protagonista riceve dal nano, alla colluttazione tra il poliziotto e il gestore degli spazi pubblicitari.
Tre manifesti è un’escalation di lacrime. E nello spettatore spicca una domanda a un certo punto. In una scena, la protagonista Mildred Hayes nega alla figlia Angela (sì, si chiama Angela Hayes, come Mena Suvari in American Beauty) l’uso dell’automobile: è quella notte che Angela viene stuprata e uccisa. La domanda che ci si pone è: Mildred prova rimorso, si addossa la colpa di ciò che è accaduto alla figlia? La risposta è no, e quella di Mildred è una grande risposta di femminismo e civiltà. Ciò che accade, il male che è nella società e che colpisce le donne in maniera crudele non è assolutamente colpa delle donne. Il maniaco stupra e uccide perché il male è in lui, ma se lo fa non è perché Midred nega l’auto ad Angela. L’unica cosa che può fare Mildred, e che cerca in effetti di fare, è ottenere giustizia, è ottenere che altre ragazze, le figlie di qualcun altro, non siano stuprate e uccise.
Per chi non ha mai visto in questo film, l’occasione è davvero unica: è in programmazione stasera su Rai 3 alle 21,20. E a me viene già voglia di rivederlo (anche se sinceramente, preferisco aspettare qualche piattaforma in streaming come Netflix o PrimeVideo perché vorrei vederlo finalmente in lingua originale).