L’epopea di un uomo africano che vuole liberarsi dalle proprie catene, in un mondo basato su schiavi e padroni.
di Paolo Merenda
Se mi state seguendo nei miei articoli sui film come mi avete seguito negli articoli legati ai viaggi in Italia (ad esempio dove parlo di Matera), avrete notato che nel corso del pezzo nomino i premi vinti. Non è perché un bel film è reso tale dal premio Oscar, dal Golden Globe, dal Bafta o quel che è, altrimenti fa schifo, ma perché sono sinceramente contento quando di un’opera fatta bene viene riconosciuta la grandezza attraverso la vittoria di premi prestigiosi. I premi minori vinti da Il buco, ad esempio, li considero tali: un riconoscimento al buon lavoro svolto.
E quindi parto appunto dai due premi Oscar vinti, per Django Unchained, uno a Christoph Waltz come migliore attore non protagonista (il suo secondo in carriera) e l’altro a Quentin Tarantino per la miglior sceneggiatura originale (il secondo anche qui). Waltz in particolare dovrebbe farsi un altarino a casa sua con la foto di Tarantino, che l’ha diretto sia in Bastardi senza gloria che in Django Unchained, i film per cui ha vinto entrambe le volte dei riconoscimenti importanti. E Tarantino? Pulp Fiction e appunto Django Unchained gli sono valsi due statuette, ma a prescindere da ciò nessuno può metterne in dubbio la grandezza.
Andando nello specifico del film su Django – dal 17 settembre nel catalogo Netflix – Freeman (Jamie Foxx), è una vera e propria epopea, su uno schiavo che anela alla libertà per se stesso e per la sua amata. Sul suo cammino incontra il dottor King Schultz (Christoph Waltz), un cacciatore di taglie, che lo acquista in una scena piena d’azione, perché Django deve riconoscere certi pesci grossi, tre teste che valgono molto. L’ex dentista tedesco tratta fin da subito Django come un suo pari, e insieme escogitano un piano per liberare anche la moglie dell’africano, schiava di un potente latifondista, Calvin Candie (Leonardo DiCaprio).
La pellicola si divide nettamente in due parti: nella prima, il piano per liberare la donna, va male, ma davvero male. Schultz difatti muore e Django viene catturato, ma quando tutto sembra perduto la forza della disperazione fa la differenza.
Nella trama io ci vedo il mito dell’araba fenice, con la morte che fa parte della rinascita, il passaggio obbligato e doloroso per toccare il cielo. Non ci sono personaggi femminili forti, a differenza di quasi tutti gli altri lavori di Quentin Tarantino, ma è tutto funzionale al periodo storico di cui si parla. La donna da salvare, la principessa chiusa nel castello dorato, è quindi il tema principale, il che dona alla storia dei connotati fiabeschi. Tutto viene reso bene sullo schermo, anche forse per le quasi tre ore di pellicola, tempo sufficiente per spiegare e dare spazio a tutte le sottotrame.
Nel cast anche Samuel L. Jackson con un personaggio fondamentale e significativo (tarato nell’immagine su uno schiavo di casa presente in Via col vento), poi Kerry Washington, Dennis Christopher (già nella miniserie del 1990 It) e Franco Nero. Proprio il cameo di quest’ultimo è importante: Quentin Tarantino ha attinto a piene mani da un film del 1966 di Sergio Corbucci, il cui titolo è appunto Django, con il protagonista interpretato da Franco Nero. Tra l’altro, in Django del 1966 c’è una cruenta scena in cui a un uomo viene tagliato un orecchio. Le Iene, sempre di Tarantino, vi dice niente?