Per avvicinarsi in modo competente alla lettura, la scoperta e lo studio di questi romanzi è quasi obbligato, e i motivi possono essere molteplici.

di Paolo Merenda

La saga di Hunger Games, della talentuosa scrittrice Suzanne Collins, è figlia di un reparto letterario più antico, quello distopico. Suzanne Collins ha dato il suo contributo alla distopia per ragazzi, così come è stata sdoganata benissimo quella per grandi fruitori di serie tv, su Netflix, PrimeVideo e altre piattaforme. Tanto per fare un nome, basta citare Black Mirror, di stagione in stagione sempre più innovativa. Ma la base, i pilastri di un genere che ha sempre maggiori estimatori, risale ai primi anni del 1900.

Giusto un accenno sul genere in sé può essere utile: la distopia, in letteratura, è il modo in cui si immagina il futuro se più di qualcosa nel presente dovesse andare storto. Qualcosa di simile, ma non sovrapponibile, è l’ucronia, cioè come sarebbe il mondo oggi se in passato qualcosa fosse andato storto, cambiando il corso del tempo come lo conosciamo (un esempio è La svastica sul sole di Philip K. Dick, da cui è stata tratta la serie tv The Man in the High Castle). Il suo contrario, invece, è l’utopia, ovvero la descrizione, letteraria e non, di un mondo ideale. C’è da dire che in letteratura, oltre ai libri per bambini (dove va benissimo che sia così) ha un’applicazione minima: un topos fondamentale è che l’eroe deve affrontare grossi pericoli per andare incontro a una gloriosa o una disastrosa fine, ma se vive in un mondo ideale la trama rischia di essere ben piatta.

Il mondo nuovo (1932)
Aldous Huxley scrisse quello che è considerato uno dei primi esempi di romanzo distopico con elementi moderni. Che sono la rappresentazione di una società standardizzata in cui la religione e Dio vengono soppiantati da emblemi del consumismo. Il “mondo nuovo” del titolo è la modalità con cui vaste aree della Terra vengono plasmate secondo i voleri del nuovo creatore, che cambia anche la numerazione degli anni. Tutto, insomma, di quel che conosciamo adesso (o meglio, degli anni ‘30 dello scorso secolo) è rimesso in discussione, ed è davvero il punto di partenza per capire non solo quel tipo di letteratura, ma anche come possono cambiare gli scenari politici in base a ciò che accade ogni singolo giorno.
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1984 (1949)
In realtà George Orwell lo pubblicò nel 1949, ma lo scrisse nel 1948, e riporto quello perché il titolo è nato invertendo le ultime due cifre. Tanto bastava, secondo Orwell, a dare l’idea di quanto poco ci sarebbe voluto per cadere nella spirale di cui parla. Il Grande Fratello della nuova società comanda praticamente tutto, anche la storia e ciò che è successo in passato. Viene infatti riscritta continuamente per adattare il presente a ciò che c’è stato prima, ed è a mio avviso il colpo di genio per rendere, sulla carta, la dittatura eterna. La base prende spunto dal comunismo russo di Stalin, ma potrebbe davvero essere qualunque totalitarismo, perché uno dei messaggi è che tutti i dittatori anelano a portare il popolo nello stesso vortice discendente, e quindi bisogna saperli riconoscere prima che prendano il potere, perché poi sarà troppo tardi.
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Fahrenheit 451 (1953)
Ray Bradbury, invece, disegna una società che si scaglia contro la cultura e i libri: se nessuno ha più cultura, è maggiormente condizionabile da chi comanda per compiere ogni ordine ciecamente. E quante volte ai giorni nostri si è parlato di come la carenza di lettori sia uno dei motivi per cui diversi insegnamenti morali abbiano meno presa sulle nuove generazioni? In Fahrenheit 451 la lettura è totalmente proibita, tanto che la milizia del fuoco brucia direttamente le case, se al loro interno trova dei volumi. I dissidenti quindi stanno continuamente con un piede, anzi entrambi, in bilico, ma la cosa non li frena: il ragionamento è che quando apri gli occhi, è poi impossibile richiuderli e far finta di aver capito male.
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Il signore delle mosche (1954)
Il suo autore è addirittura un Premio Nobel per la letteratura (lo diventerà nel 1983, molto dopo il libro). William Golding, pertanto, è uno degli autori migliori che si possa dedicare a un romanzo distopico così complesso: i protagonisti sono infatti dei ragazzini che, bloccati su un’isola deserta, giorno dopo giorno iniziano ad autoregolamentarsi in una società che mostra pian piano delle falle sempre più grandi. È difficile da scrivere, oltre che per l’immedesimarsi in un gruppo di ragazzini che “giocano” a fare i grandi, anche nel prevedere tutte le mosse, fino alle estreme conseguenze, rendendolo assurdo ma al tempo stesso realistico. Infatti, la forza di questa lettura è convincere chi si trova il libro in mano che siano rischi appena al di là della realtà che conosciamo, nascosti da un velo sottile, incombenti.
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Arancia meccanica (1962)
E terminiamo con uno dei più celebri di tutti, grazie anche al film diretto da Stanley Kubrick. Anthony Burgess ha creato, pagina dopo pagina, una società così particolareggiata che ancora adesso ci sono vestiti per Carnevale di Alex DeLarge. Merito anche del linguaggio utilizzato, con slang e inflessioni che ti portano sì in un mondo distopico, ma diverso anche nei particolari che l’autore avrebbe potuto lasciare inalterati senza conseguenze. Uno sforzo narrativo, da parte di Burgess, che però a quasi 60 anni di distanza coglie ancora i suoi frutti: seppur con l’aiuto della famosa pellicola del 1971, le vicende ci sembrano vicine e vengono spesso paragonate ai più efferati casi di cronaca in cui c’entra il branco.
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