Scontato? Forse non del tutto: ecco quali sono i personaggi che sono stati identificati nel tempo con un’«ombra» della Divina Commedia.
La Divina Commedia, abbiamo detto, è un’opera semplice da comprendere sul piano linguistico, perché la lingua di Dante Alighieri, se possediamo un lessico abbastanza ricco, è facile da leggere quasi fosse un testo a noi contemporaneo. Nella Commedia però ci sono alcuni punti oscuri e hanno a che fare con i riferimenti alla società in cui viveva Dante: ci sono oscuri principalmente per due motivi, o perché ignoriamo profondamente la storia degli anni a cavallo del XIV secolo o perché lo stesso Dante è stato volutamente oscuro in relazione ai propri contemporanei.
In ogni caso, oggi vogliamo concentrarci su un personaggio nello specifico: parliamo di colui che per viltà fece il gran rifiuto. Lo troviamo nel canto III dell’Inferno, quello dedicato agli ignavi. Gli ignavi sono coloro che non presero mai la parte di uno o dell’altro, del bene o del male, ma restarono in mezzo, attesero per vedere cosa convenisse di più per loro stessi. Dante li pone nell’Antinferno, perché non possono stare in Paradiso ma neppure nell’Inferno, che non avrebbe nulla da guadagnare da queste anime indifferenti. Il contrappasso prevede che gli ignavi siano costretti per l’eternità a rincorrere un’insegna (come uno stendardo, ricorrente nell’iconografia) e quindi a scegliersi una parte da cui stare: nella loro corsa sono nudi e scalzi, vengono punzecchiati da mosconi e vespe, mentre sul pavimento i vermi si nutrono delle loro lacrime e del loro sangue. Ed è qui che Dante, pur dovendoli ignorare, nota una serie di uomini, tra cui colui che per viltà fece il gran rifiuto.
Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,
vidi e conobbi l’ombra di colui
che fece per viltade il gran rifiuto.
Nel tempo, si è ritenuto dare a quest’«ombra» una serie di identità. Una di queste è quella di Ponzio Pilato: il gran rifiuto sarebbe quello di far decidere alla folla se graziare Gesù Cristo o Barabba. Ci sarebbe poi Romolo Augustolo, la cui deposizione portò al crollo dell’Impero Romano d’Occidente: ma davvero la colpa per la deposizione di un imperatore-bambino può essere a lui stesso imputata? E ancora Esaù, figlio di Isacco, che cedette la primogenitura con tutti i suoi privilegi a Giacobbe in cambio di un piatto di lenticchie. Oppure Diocleziano che abdicò e fu l’unico imperatore romano a farlo volontariamente. E infine Giano della Bella, costretto a fuggire da Firenze da Bonifacio VIII, ma che Dante cita più avanti nel Paradiso (e per l’autore Giano è, al momento in cui scrive, vivente).
C’è però una figura che più di tutti ha spinto gli studiosi a dire: sì, è lui quello che per viltà fece il gran rifiuto. Parliamo di Papa Celestino V, la cui rinuncia al soglio pontificio è oggetto di pagine e pagine di storiografia. C’è chi parla di una sorta di congiura per convincerlo a fare un passo indietro, chi di un pontefice che non si sentiva adeguato, giusto e retto per il proprio ruolo (avete sentito qualcosa del genere in tempi moderni, nella realtà o nel cinema per caso?). In ogni caso, sì, colui che per viltà fece il gran rifiuto è proprio Celestino V, che poi venne canonizzato, ma solo nel 1313. Quindi che Dante considerasse legittima o no quella canonizzazione poco ci importa, perché comunque posteriore all’anno in cui è ambientata la Divina Commedia, cioè il 1300 (e quindi l’autore avrebbe dovuto essere all’oscuro dell’evento religioso).